Di tutti i giorni passati a Milano, ormai, mi pare d’avere un’idea.
E’ che non riesco ad avere davvero un’idea di qualcosa finché non l’ho consumata di vita e di pensiero. Probabilmente è un limite. No: è certamente un limite.
Dopo qualche anno di Milano e dintorni, dicevo, ho capito che tra le cose più difficili che io abbia fatto negli ultimi tempi, sicuramente quello che più mi ha dato filo da torcere è stata la necessita di sciogliere la simbiosi milanese.
Non nelle abitudini di azioni e comportamenti che piano piano finirebbero per modificarsi comunque nel tempo, intendo proprio di scioglierla nella mia testa: liberarmi dal compromesso a cui avevo tacitamente aderito (senza avvertire minimamente l’esigenza di confessarlo a chicchessia fuori da me), secondo il quale avrei potuto vivere di ogni scorciatoia possibile pur di non raccontarmi la verità tante e tante volte quanto necessario per vederla e archiviarla.
Di quanto l’enunciata strategia del compromesso faccia acqua da tutte le parti, neanche sto qui a dettagliarvelo. Fingi di dirti cose, ma in fondo ti giustifichi nel crederne intimamente altre e per quanto le tue multiple personalità siano ormai brave nel confrontarsi dialetticamente tra di loro, il rischio è quello di rimanere ingarbugliata in piccoli pezzetti di realtà verosimile: tutta quella generata dai tuoi “forse” e dai tuoi “ma se”, tutta quella incastrata tra ciò che è stato e ciò che hai subito, tutto quello che continuamente tu stessa crei per giustificare ciò che hai fatto e creduto possibile o impossibile.
Occupi tutti gli spazi vuoti, tutti i silenzi, tutti i buchi e i tempi di attesa con quello che più ti serve per arrivare al “giorno dopo”. Ma invece di camminare su una linea continua, ti ritrovi a passeggiare su una bella retta tratteggiata, così puoi infilare tutto quello che preferisci negli spazi di discontinuità.
Tutto solo per giustificare la simbiosi milanese, invece di recidere il legame di un rapporto in cui forse ho fuso le mie sfumature in quelle di un altro, finendo a volte per dimenticare di come fosse la mia sola forma, solo la mia. Senza discontinuità. Perché in fondo era a me che sentivo di dovere delle spiegazioni, ma non sapevo più come arrivarci se non passando per la vita di un altro.