L’ansia dei sentimenti

Abbiamo l’ansia dei sentimenti.

Non lo so se qualcuno ce l’ha trasmessa, se ce l’hanno insegnata a scuola o al catechismo, se l’abbiamo vista negli occhi di chi ci precedeva oppure l’abbiamo inventata noi.

Chi più chi meno, chi consapevolmente chi no, è una roba con cui tutti abbiamo avuto a che fare.

Se non ti stai organizzando per matrimoni e figli, se non hai una relazione stabile, se la relazione ce l’hai e non la vorresti, se ce l’hai ed è profonda, ma la società la vorrebbe diversa, se il tuo desiderio di maternità non corrisponde alle tue ambizioni lavorative, se il tuo desiderio di maternità non corrisponde all’idea di famiglia che hanno gli altri, se ti imbatti in una cosa preziosa, ma hai così paura di perdere il resto che non gli lasci la possibilità di entrare. Ci hanno veramente incastrato in una serie di aspettative di valore così alte, che non riusciamo più a vivere sentimenti profondi senza averne troppa paura?

Mi imbatto in persone imbrigliate nella loro incapacità di svincolarsi dall’ansia dei sentimenti. Persone che ascoltano canzoni che sanno di poesie, leggono versi romantici, praticano l’amore ed il rispetto per il prossimo come una forma di attenzione per il mondo, ma che restano incastrate. Comunque.

E con questo non sto dicendo che io sia immune dal virus o che lo sia sempre stata. No, no.

Nei vari tempi e modi che ho attraversato, mi sono spesso domandata cosa ci fosse di “sbagliato in me”: se il fatto di non avere una chiara idea di visioni e “obiettivi”, ma piuttosto di tracciare un percorso dato dalle scelte generate dagli incontri con la vita, mi rendesse più o meno vulnerabile.

Sono un tracciato di razionalità. Cresciuta con la convinzione che per proteggermi avrei dovuto imparare a filtrare ogni emozione in entrata. Eppure quello che mi rende viva più di ogni altra cosa rimane la “sezione” emotiva, la parte irrazionale di me. Tutto quello che in me risponde alla parte appassionata e motivante. Quella che non mi ha mai impedito di assumermi il rischio di affidarmi alla felicità intravista negli occhi di un altro, seppure rischiando di perdere. Quella che non mi ha mai impedito di arrabbiarmi e rimanere arrabbiata per mesi. Quella che non mi ha mai impedito di perdonare.

Se potessi mettermi a tavolino con Dio e chiedergli di rifarmi il carattere al bisturi, dovrebbe staccarmi uno scontrino veramente salato tante sarebbero le richieste, ma nelle ultime settimane non faccio altro che imbattermi in persone “tutta testa”, persone che confondono l’amore con l’affetto, che faticano a dare, che faticano a darsi (il che implica una deficienza nella capacità di ricevere). Persone che non sanno lasciarsi andare alla possibilità di una condivisione reale, che si trattengono fino a correre il rischio di inaridirsi.

E forse ho rivalutato il senso dell’equilibrio tra le parti. Quella emotiva e quella razionale.

Credo nel sentimento delle cose. Nella forza di fare delle scelte e nel coraggio di vivere ogni giorno a pieno, definendo quei risultati che passano per errori e vittorie.

Credo nelle persone e nella loro unica capacità di fare la differenza entrando nella vita degli altri in modo che questa non sia più la stessa.

Ci tocchiamo in modi che segnano il tempo stesso e condizionano il suo continuo circolare rendendoci giocatori in balia di noi stessi.

Considero le persone l’unico meccanismo ad ingranaggio capace di trasformare il ciclo del tempo in movimento vero, che ci cambia dentro ancor prima che il mondo fuori possa accorgersene.

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